AhlolBayt News Agency (ABNA)

source : Pars Today
martedì

11 giugno 2019

08:21:10
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Cosa succede in Sudan - 2

A guidare la repressione della settimana scorsa erano stati gli uomini della cosiddetta Forza Rapida di Supporto (FRS), distintisi oltre un decennio fa per i metodi brutali adottati nella regione del Darfur, quando era una milizia nota col nome di “Janjaweed”.

(ABNA24.com) A guidare la repressione della settimana scorsa erano stati gli uomini della cosiddetta Forza Rapida di Supporto (FRS), distintisi oltre un decennio fa per i metodi brutali adottati nella regione del Darfur, quando era una milizia nota col nome di “Janjaweed”.

La FRS continua a controllare le strade di Khartoum ed è comandata dal famigerato generale Mohamed Hamdan Dagalo, soprannominato “Hemedti”, formalmente numero due della giunta militare al potere ma ritenuto il vero leader del regime nato dopo la deposizione di Bashir.

L’ormai ex presidente era stato messo da parte l’11 aprile scorso con un golpe preventivo dei militari, spaventati dall’ondata di proteste che minacciava di spazzare via l’intera impalcatura militare del regime sudanese. Com’era spesso accaduto per le rivoluzioni – genuine o create a tavolino in Occidente – che avevano sconvolto il mondo arabo nel 2011, anche quella che sta interessando il Sudan era iniziata come protesta contro l’aumento dei generi di prima necessità, per poi sfociare in una rivolta generale contro Bashir e la sua cerchia di potere.

Dopo l’uscita di scena forzata del presidente, le organizzazioni che rappresentano o pretendono di rappresentare la popolazione sudanese avevano accettato di negoziare la transizione con i militari. Le trattative erano però naufragate sulla questione della guida del governo che avrebbe dovuto portare il Sudan verso le elezioni. Per l’opposizione, i generali avrebbero dovuto farsi da parte o, quanto meno, partecipare a un esecutivo guidato da civili, con l’obiettivo di preparare il paese per una consultazione libera e democratica da tenersi di qui a tre anni.

L’improvvisa accelerazione impressa alla contro-rivoluzione in Sudan dai militari è avvenuta di fatto con il consenso e il pieno sostegno, anche materiale, di regimi dittatoriali come quelli di Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti ed Egitto. Pochi giorni prima della repressione del 3 giugno, il numero uno ufficiale del Consiglio Militare di Transizione, generale Abdel Fattah al-Buran, si era recato infatti al Cairo e ad Abu Dhabi per ricevere ordini su come soffocare le proteste. Il suo vice, il già ricordato generale Dagalo, era stato protagonista invece a Riyadh di un faccia a faccia con l’erede al trono saudita, principe Mohammed bin Salman.

L’esempio seguito dai militari sudanesi è in sostanza quello egiziano, dove nel 2013 l’attuale presidente-dittatore, generale Abdel Fattah al-Sisi, aveva represso nel sangue la rivolta dei sostenitori del deposto presidente democraticamente eletto, Mohammed Mursi, e spento definitivamente gli impulsi rivoluzionari nel paese nordafricano.

Per quanto riguarda l’Occidente e, in particolare, gli Stati Uniti, i rispettivi governi hanno emesso nelle ultime settimane dichiarazioni di circostanza per condannare le violenze dei militari o per richiamare alla calma e al dialogo tutte le parti coinvolte nella crisi sudanese. Washington, tuttavia, sembra avere dato il sostanziale via libera alle violenze, dal momento che l’iniziativa è in larga misura in mano a paesi fedelmente alleati degli USA.

Arabia Saudita ed Emirati Arabi si sono impegnati per stanziare aiuti pari a ben tre miliardi di dollari per il Sudan controllato dai militari. I rapporti tra queste monarchie assolute e Khartoum si erano già consolidati da tempo e, recentemente, si sono rafforzati nel sangue della popolazione dello Yemen, dove un contingente sudanese sta partecipando alla guerra criminale condotta da Riyadh e Abu Dhabi.




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